di Raffaele Arcuri –
Le fate hanno sempre abitato il Reventino. Hanno avuto un posto importante tra le pieghe della fantasia popolare, rappresentando lo spirito che abita e custodisce il territorio. Ereditano tutte le caratteristiche delle ninfe, le divinità minori della mitologia greca: sono generose, rendono feconda la natura, ma talvolta possono diventare anche bizzose.
Si narra che sul monte Reventino vivessero delle fate. Nessuno poteva vederle, ad eccezione di un loro garzone. Un giorno decisero di costruire una chiesetta e lo mandarono in giro per trovare dei muratori. Iniziarono i lavori e ogni giorno il garzone portava ai muratori del vino e del cibo squisito, tanto che essi volevano sapere chi lo cucinava.
Il garzone si rifiutò di rivelare il segreto e venne ucciso. Dopo la sua morte, nessuno portò più il cibo ai muratori ed essi, rimasti senza alcuna assistenza, abbandonarono il lavoro. Le fate, addolorate per la morte del loro fedele garzone e adirate contro i muratori assassini, secondo una versione si tramutarono in pietre, secondo un’altra fuggirono da Reventino urlando: “Ritorneremo solo quando il monte Reventino si unirà con il monte Cucuzzo”. Mentre le fate andavano via, la chiesetta sprofondò sotto terra proprio in quel punto del monte che ancora oggi è denominato, “a fossa da gghiesa” nei pressi di Campo Chiesa, una piccola frazione di Platania. Quello che mi colpisce di questa leggenda è la fuga delle fate dal Reventino per colpa degli uomini.
La lezione che ci viene consegnata è chiarissima: quando gli uomini (i muratori) vogliono avere il sopravvento sulla natura (le fate), distruggono il paesaggio, stuprano il territorio. E’ quello che sarebbe potuto accadere, ancora una volta, se fosse stato realizzato il megaimpianto eolico sul Reventino: gli uomini, ancora una volta, hanno cercato di mandar via le fate superstiti.
Non so se si possa parlare di furto della magia, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente pensando alla possibilità concreta che le nostre montagne potessero essere riempite di pale eoliche. Perché ieri sera, da Castagna, il Reventino aveva qualcosa di magico: si stagliava deciso verso il cielo, tra fiaba e realtà, avvolto da una sottile patina color arancio. Strano posto la Calabria, stupendo ma strano, pensavo. Sono ritornato da qualche anno e faccio ancora difficoltà a capire. Mi capita, sempre più spesso, di imbattermi sul web in siti di matrice filo borbonica, o in manifesti che inneggiano alla presunta epoca d’oro del regno di Napoli, alla iattura dell‘impresa garibaldina e alla colonizzazione piemontese, cause di ogni male attuale.
Gran dibattito storico insomma. Spendiamo tante risorse intellettuali e di pensiero a perorare cause secondarie e lontane e non ci accorgiamo che, sotto i nostri occhi e con il nostro consenso, c’è chi continua a colonizzarci. Un vero e proprio furto di magia e di paesaggio quello che sta avvenendo con i parchi eolici e con le multinazionali del vento che, come Normanni, Angioini, Svevi, Spagnoli, Borboni e Piemontesi, seguitano a depredare la Calabria. E noi nel frattempo siamo convinti di combattere una guerra giusta e necessaria, ci infogniamo in vicende di un passato sempre più remoto e assolviamo in questo modo gli ultimi 50 anni di dissennata politica regionale.
E consegniamo, in cambio di royalty da fame, il nostro vento e il nostro paesaggio alle multinazionali tedesche, francesi ed olandesi, e avvolti nel drappo borbonico continuiamo a gridare: “Viva Franceschiello!”.
Allora, tornando alla nostre fate, forse la cosa più importante che possiamo fare per farle ritornare è ciò che scrive Francesco Bevilacqua nell’introduzione de “Il Parco del Reventino”. “Sta a noi la scelta: possiamo, con le nostre opere, far sì che la loro fuga si trasformi in esilio definitivo; oppure possiamo imparare, con umiltà e lungimiranza, a seguire i labili segni che ci condurranno alla gioia del ritrovamento e della scoperta”.
Riportare le fate sul nostro territorio, è questo quindi il nostro compito, restituire per sempre la magia e l’incanto a noi stessi e a ciò che ci appartiene.