di Matteo Cosco –
C’è un male atavico che squarcia l’Italia dalla Alpi allo Stretto con un grido di dolore, che dal 17 marzo 1861 ad oggi, non è mai stato del tutto ascoltato, ripresentandosi sempre uguale a se stesso: questa è la così detta “Questione Meridionale”.
Questa dicitura, è incapace di restituire la reale estensione del problema, che non ha dimensioni limitate al Sud Italia, ma ha interessato e interessa tutto lo Stivale, nella sua interezza. Ecco perché si dovrebbe piuttosto parlare di “Questione Italiana”.
Oggi, mentre la narrazione mainstream si sofferma su l’emigrazione dal continente nero o sulla rotta balcanica, si racconta forse troppo poco di un’altra emigrazione e di un altro flusso carsico, che come un rubinetto rotto continua a scorrere silenziosamente goccia dopo goccia: quella dei giovani meridionali che abbandonano la loro terra per trasferirsi nel settentrione o peggio ancora all’estero.
La stessa terra abitata da quegli uomini con le coppole in testa e con le valigie di cartone in mano, che si muoveva attraverso carrozze ferroviarie ottocentesche per trovare lavoro nelle fabbriche della Milano, Genova e Torino del boom economico; oggi si sposta in maniera più smart, grazie ai voli low cost, più comodi e veloci.
Ma se pur con mezzi di trasporto diversi, la direzione e la sostanza restano sempre le stesse, forse aveva proprio ragione lo scrittore palermitano Giuseppe Tommasi di Lampedusa che nel Gattopardo affermava: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Però, qualcosa è cambiato rispetto all’emigrazione che costringeva uomini e donne a partire, per offrire la propria forza lavoro sul mercato del nord industrializzato. Oggi ad emigrare oltre a chi è in cerca di un’occupazione, vi è anche una “maggioranza silenziosa” fatta da studenti – costretta dalle circostanze, o punzecchiata dall’ambizione – ad emigrare verso la stessa direzione sulla quale si muovevano i loro padri in improbabili binari ferroviari, per ricercare migliori opportunità di vita che non erano e non sono presenti nella loro terra. Così con sempre più valigie in mano il Sud si desertifica e perde capitale umano, la popolazione invecchia e non avviene il naturale ricambio generazionale.
Secondo alcuni la rivoluzione digitale e la Rete, proponendosi come non luogo della comunicazione globale per eccellenza, avrebbe smorzato il dislivello annullando gli stereotipi e azzerando le distanze con un semplice click, eppure i dati che seguono, non sembrano confermare questa tesi.
C’è una forbice molto netta: un’Italia che mangia ed un’altra che sta a digiuno nella palude, i dati ISTAT che chiudono il 2017 sono molto chiari a proposito: il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno (19,4%) è tre volte quello del Nord (6,9%). Inoltre, come conferma l’Istituto superiore di sanità, oggi una persona che nasce in Campania, Sicilia o in Calabria ha un’aspettativa di vita fino a quattro anni inferiore rispetto al Nord.
Noi tutti, in quanto italiani, siamo chiamati ad una presa di coscienza collettiva perché come sostengono Stella e Rizzo: “Se muore il Sud muore l’Italia intera. Ma se muore il Sud è anche e soprattutto colpa nostra”.